Scopriamo insieme il fenomeno della biomineralizzazione
Nel sottosuolo si nasconde una mappa invisibile che alcune piante, sorprendentemente, sanno leggere. In specifiche condizioni geologiche e biologiche, nanoparticelle d’oro possono essere rintracciate in foglie, corteccia e aghi di conifere: non perché gli alberi “creino” il metallo, ma perché lo intercettano e lo trasportano attraverso i loro tessuti.
Un fenomeno affascinante — la biomineralizzazione — che apre prospettive per l’esplorazione mineraria a basso impatto e per tecnologie di recupero selettivo dei metalli.
Come l’oro entra nei tessuti vegetali
Per biomineralizzazione intendiamo l’insieme di processi biologici (sovente mediati dal microbioma della pianta) che portano alla precipitazione o all’accumulo di minerali nei tessuti.
Nel caso dell’oro, il metallo è originariamente presente nel suolo o nelle acque di falda in forma ionica o complessata; viene assorbito con la soluzione circolante dalle radici, veicolato nel xilema e, in alcune circostanze, precipitato come nanoparticelle lungo il percorso radici–fusto–chioma.
Il perché avvenga in certi siti e non in altri dipende da: geochimica locale, idrologia, specie vegetale e composizione della comunità microbica associata.

Casi studio: Finlandia e Australia
Aghi di abete rosso (Finlandia)
In prossimità della miniera di Kittilä (Lapponia, Finlandia), uno studio su 138 campioni prelevati da 23 abeti rossi ha individuato nanoparticelle d’oro spesso associate a biofilm batterici sugli aghi.
Le comunità microbiche più frequenti includevano P3OB-42, Cutibacterium e Corynebacterium; l’evidenza indica un meccanismo di precipitazione dell’oro disciolto in particelle solide mediato dal biofilm.
Le concentrazioni rilevate (ordine ppb) non sono sfruttabili a fini estrattivi, ma risultano altamente informative come segnale di prospezione a basso impatto.
Eucalipti “pompe idrauliche” (Australia)
Studi su eucalipti hanno rilevato tracce d’oro in foglie, corteccia e rami in diversi siti australiani, dove le radici degli eucalipti raggiungono anche i 30–40 metri di profondità, agendo di fatto come “sonde idrauliche” di depositi auriferi sepolti.
Le analisi mostrano concentrazioni nell’ordine delle parti per miliardo (per esempio ~80 ppb nelle foglie), valori non sfruttabili (basti pensare che servirebbero centinaia di alberi per accumulare l’oro necessario a un semplice anello) ma altamente diagnostici in fase esplorativa.

I batteri “alchimisti”
Lungo le superfici radicali e nei tessuti vegetali vivono batteri capaci di interagire con i metalli:
- Cupriavidus metallidurans: tollera concentrazioni elevate di metalli pesanti; tramite percorsi enzimatici può ridurre Au(III) → Au(I) → Au(0), favorendo la nucleazione di nanoparticelle all’interno/esterno della cellula.
- Delftia acidovorans: secerne delfibactina A, un peptide che complessa e precipita gli ioni dell’oro formando granuli nanometrici (tipicamente 25–50 nm) a contatto con la matrice extracellulare.
Questi microbi, spesso organizzati in biofilm, modulano pH, redox e disponibilità di ligandi organici (molecole o ioni), creando micro-nicchie chimiche dove l’oro passa dalla fase disciolta alla fase solida.
Dalle piante alla miniera: applicazioni pratiche e limiti
- Prospezione sostenibile: campionare foglie, corteccia, aghi e microbioma permette di screenare vaste aree con meno perforazioni e minor impatto ambientale. È un indicatore di potenziale, non una stima di riserva.
- Bonifica e recupero: la biotecnologia può aiutare a rimuovere metalli da suoli e acque (o da RAEE) con processi a basse emissioni, anche se i tempi sono più lunghi rispetto alle tecniche fisico-chimiche.
- Reality check per gli investitori: gli alberi non sono miniere. Offrono segnali che riducono costi e rischi nella fase esplorativa; il valore economico per il detentore finale resta legato all’oro fisico certificato.

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